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La chef Maria Amalia Anedda, tra visione e creazione (parte III)

2017-01-11 Maria Amalia Anedda è una bella ragazza di 26 anni, con un sorprendente sorriso e modi affabili. Ma non bisogna farsi trarre in inganno. La giovane chef parmigiana, che a breve aprirà in provincia di Parma un ristorante con il suo compagno, lo chef Jacopo Bracchi, è determinata e perseverante.
E ha saputo farsi strada, non senza fatica, nel mondo della ristorazione professionale. Lavorando sodo, ma anche dimostrando competenza e creatività.
Da dove parte, Maria, la creazione di un suo piatto?
«Da una visione. E questa può arrivarti ovunque: vedi un ingrediente, hai un ricordo che accende una memoria gustativa, olfattiva, tattile. Ognuno dei nostri sensi ha visioni. La vera difficoltà è dare forma a queste visioni. A volte basta una sola prova e, al primo colpo, il piatto è pronto per uscire in sala ed essere messo in carta, a volte ci vogliono mesi… Un piatto è giusto, quando richiama il più possibile la visione iniziale e comunica il messaggio che volevi. Anche se un cuoco non è mai contento della propria opera, un po’ come lo scrittore o il pittore…».
Ci sono piatti storici di chef colleghi che vorrebbe aver creato lei?
«Il risotto “Oro e Zafferano” di Gualtiero Marchesi. Uno stravolgimento del risotto: la nouvelle cuisine italiana, per lo studio e l’innovazione, per l’idea di trasfigurare un piatto povero attraverso la figlia d’oro. Poi il risotto Cavolfiore, rafano e ibisco” di Marco Viganò, perché nella sua semplicità di risotto bianco servito su un piatto bianco, ti sorprende in un’esplosione di gusto a ogni forchettata. Viganò è uno chef creativo e propone piatti d’avanguardia. Mi ha insegnato tanto dal punto di vista del gusto. Anch’io cerco di studiare gli abbinamenti, unendo note esotiche al comfort food. Infine, “Camouflage: una lepre nel bosco” di Massimo Bottura, a base di salsa civet con ossa e sangue di lepre, foie gras, cioccolato, caffè, erbe aromatiche, radici, verdure, spezie e molto altro, per la storia complessa e affascinante, tra note dolci e salate, che racconta».
Di tre piatti, due sono risotti.
«Il risotto è una tela bianca, che ognuno può decorare come desidera, e in Italia è il tratto distintivo di ogni cuoco, perché presenta il giusto mix tra ingredienti e tecnica. Permette allo chef la massima espressione della sua cucina».
Qual è il piatto che meglio racconta, ad oggi, la sua cucina?
«Il piatto che ho presentato per il casting di “Top Chef”, e anche al Festival “Gola Gola”: ravioli al cacao, ripieni di foie gras e spinaci, in un brodo di petto d’anatra affumicato. Ho unito l’artificio e i prodotti di culto francesi con le tecniche emiliane».
Com’è stato partecipare a “Top Chef”?
«È stata una bella esperienza dal punto di vista umano: si è creato un clima amichevole con gli altri concorrenti ed è stato difficile essere competitivi. Ciascuno di noi ha avuto la possibilità di confrontarsi con altri colleghi ed è stata na competizione sana e collaborativa tra professionisti del settore».
Essere una donna, per giunta giovane e avvenente, come viene vissuto dalla brigata?
«Comporta un calo di credibilità! Devi faticare il doppio per dimostrare di sapercela fare. L’ambiente della ristorazione professionale è prettamente maschile e maschilista: fare lo chef è uno dei mestieri più belli del mondo ma, come donna, devi dimostrare di sapertela cavare, sia psicologicamente sia fisicamente. All’inizio ti senti chiedere se “te la senti”: te la senti di disossare un agnello? te la senti di spostare una damigiana d’olio da 40 chili? Beh, te la devi sentire!».

Mariagrazia Villa

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