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Foto&Food: Giorgio Cravero (parte IV)

2017-06-16 Terminiamo questa intervista al noto fotografo Giorgio Cravero con alcune domande più tecniche: come utilizza la luce, come organizza il set fotografico e quale peso gli attribuisce nella creazione dell’immagine e quale inquadratura preferisce adottare.
Come usi la luce, Giorgio?
«La fotografia, etimologicamente, è scrittura con la luce e la luce è, di fatto, l’unica cosa veramente necessaria. Ricercare la massima qualità possibile prevede un controllo totale sulla luce, che è lo strumento principale con cui un fotografo può raccontare una storia ogni volta differente, lasciando fermi oggetti e set. Io uso la luce in maniera sempre diversa. Ogni volta in cui finiamo un lavoro, voglio che si smonti tutto il set perché questo mi costringe sempre a ripartire da capo. Nelle foto che prevedono un’ambientazione, anche la ricerca del colore giusto o dei contrasti dei colori è molto importante. La scelta della dominante di colore di un’immagine serve a portare il fruitore in un mondo piuttosto che in un altro… I colori sono degli strumenti narrativi, non dovrebbero mai essere casuali. Nulla dovrebbe essere casuale nella fotografia, nemmeno una briciola. Ma tutto scelto con attenzione. La creatività, comunque, parte da me, sì, ma viene sempre discussa con tutta la mia squadra».
Quanto conta il set dove ambienti il prodotto o il piatto?
«Dipende dal lavoro. In quelli di tipo documentale, conta poco o niente. Altrimenti, è estremamente importante. Un mio amico art director dice: qual è la storia? Cosa sta succedendo? Chi sono i protagonisti? Se diamo retta alle 5 W dell’attacco giornalistico, tutto ciò che è attorno al soggetto diventa importante».
Quale tipo di inquadratura preferisci?
«Se possibile, mi piace stare il più basso possibile, perché voglio osservare le cose da un punto di vista un po’ inusuale, prendendo il punto di vista del piatto stesso. Non mi piacciono lee foto di food dall’alto, perché è una visione che non abbiamo mai. Io ragiono sul piatto come ragiono sull’architettura: ci sono tante componenti che vanno a definirlo: volumi, texture… Il piatto fotografato in pianta rende difficile lavorare sulla luce, perché l’effetto risulta… piatto. Hai poche possibilità di valorizzare la profondità all’impiattamento».
Nella food photography si raccontano delle storie. Che tipo di storia ami raccontare più spesso?
«Credo che la storia che più si avvicina alla fotografia enogastronomica sia quella che parla di convivialità e di piacere del cibo condiviso. Il cibo è legato al rapporto con gli altri. Anche se uno frequenta mega ristoranti, la cena a casa con amici è imbattibile: il cibo forse è cucinato meno bene, ma si sviluppano emozioni. Attorno a un tavolo sono sempre accaduti amori, liti, accordi. A tavola è stata fatta la storia, sia personale e famigliare sia delle nazioni. L’umanità ha trasformato un bisogno primario, che è quello di nutrirsi per sopravvivere, in qualcosa di sociale, che è trasversale tra le persone. Basti pensare che ogni territorio e ogni ricorrenza ha i propri cibi…».

Mariagrazia Villa

Fotografie: Giorgio Cravero

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